uno stronzo qualunque

"Ci sono gli stronzi. Poi c'è lo stronzo qualunque" A. S. Shole

Categoria: Storie vere

DUE

“Ogni parola che scriviamo è

una lettera d’amore”

– DQ

Esci di casa per andare a comprare un gelato. Fa già freschetto e ha piovuto tutto il pomeriggio. Però chissà perché hai voglia di gelato. Purtroppo scopri che la gelateria è chiusa. Non importa, pensi, perché non hai davvero voglia di gelato. Il gelato è una scusa per uscire, invece di stare chiuso in casa da solo. Perché dopo giorni e giorni durante i quali hai ripetuto a te stesso che non ne avresti più voluto sapere è arrivato il momento di vedere cosa succede là fuori. Magari ti sei inventato la scusa del gelato perché speravi di poter ottenere una specie di vaticinio dalla disponibilità dei gusti o dal colpo di fortuna di addentare un bel pezzo di cioccolato in mezzo alla stracciatella. Ci pensi a volte che le decisioni possano essere prese così: pensi a una domanda alla quale si possa rispondere con un sì o con un no e attendi che la persona che cammina di fronte a te entri o no in quel vicolo. Poi ti chiedi: una decisione così importante per la tua vita può essere affidata in maniera tanto stupida al caso? Comunque la gelateria è chiusa, quindi niente vaticinio al gusto di creme o frutta. Allora passeggi, già che ci sei. E ti capita di osservare una casa che fa angolo e chissà perché ti viene in mente Istanbul. Ti viene in mente Istanbul e una cosa che il tuo amico DQ ha scritto tempo fa e che diceva così:

Ci siamo interrogati su come si passa dalla conferma alla nostalgia poi alla ricerca e infine alla consapevolezza del mondo, della vita e dell’amore. Cominciamo da quello che scrive Williamson nei suoi appunti sulle civiltà precolombiane.

Accade (nelle società primitive) che certune simbologie restino immutate anche al mutare del contorno storico e culturale e sociale nel quale vengono impiegate. Abbiamo notato, ad esempio, come presso la tribù dei ‘Nfami la rappresentazione del Sole stia a significare la celebrazione della gloria e della forza del capo. Quando questa tribù è stata attaccata e sopraffatta dalla tribù dei Mename, quello stesso simbolo del Sole non sparisce, ma viene utilizzato dalla tribù vittoriosa per celebrare l’avvenuta vittoria.

Questo risulta decisamente in contrasto con quanto si chiede Dubois quando tratta della simbologia architettonica nei regimi fascisti degli anni ’30 in confronto con le democrazie occidentali. Ecco infatti cosa scrive Dubois.

Certi stili architettonici, certi motivi costruttivi si ritrovano negli Stati fascisti come negli Stati Uniti. In entrambi i casi si tratta naturalmente di stilemi ripresi da una sorta di koinè greco-romana. Sia nell’ispirazione classicista che nei nostri esempi moderni questi stilemi rappresentano la forza dello Stato. Ma ben diversi tra loro sono i regimi fascista e americano! Ci domandiamo quindi: quale tipo di Stato celebrano quelle architetture? Significano forme di Stato in realtà simili sebbene contrapposte storicamente? Oppure in uno dei due casi esaminati sono meramente vuote di significato?

Nel suo romanzo giovanile Loretti descrive il comportamento del protagonista (alter-ego dell’autore, presumiamo) che persevera nella consuetudine di passeggiare lungo certe vie come era solito fare con il suo caro amico sebbene questi sia morto mesi prima in guerra. Riporto poche frasi del brano che ne parla.

Le case e le strade che continuavo a percorrere non erano cambiate. Non vedevo in esse i fantasmi delle nostre lunghe camminate serali di poco tempo prima. Le case e le strade esistevano nel presente e io le sfioravo e le calpestavo non con l’intenzione di evocare un ricordo. Per me non poteva essere diversamente da così…

Ho la fotografia di un brano di un racconto tratta da un giornale ormai qualche anno fa. Non ricordo che giornale fosse, né l’autore del racconto. La tematica, declinata in chiave contemporanea e moderna, è la stessa trattata dai precedenti autori.

Con una certa regolarità cambiavo l’immagine di copertina di Facebook scegliendo solo immagini di coppie. Non di coppie nel senso di un-lui-e-una-lei soltanto. Potevano essere anche coppie di amici, di calciatori, di personaggi di cartoni animati, di politici, perfino di animali. L’unica regola è che fossero due. A quel tempo ero fidanzato con quello che pensavo essere l’amore della mia vita. Così mi sono detto che mi ero fissato con sta regola del due perché volevo celebrare il nostro amore. Questa mi sembrò una motivazione romantica e tenera. Era una specie di codice segreto fra noi: dicevo al mondo quanto l’amavo senza che il mondo ne fosse consapevole e potesse quindi prendermi per sdolcinato. Poi le cose non sono andate a finire bene e abbiamo troncato.

Il resto del racconto passa oltre e segue le vicende dell’autore. Vorrei invece provare a immaginare quale potesse essere il prosieguo del ragionamento legato alla regola del due delle immagini di copertina ripartendo dall’ultima frase del brano precedente senza pensar troppo ad imitarne lo stile.

Poi le cose non sono andate a finire bene e abbiamo troncato. Dopo i primi giorni in cui la vita mi è sembrata come sospesa e dilatata in minuti che sembravano ore e giorni che sembravano mesi, m’è tornata in mente questa cosa delle immagini di coppie. Mi sono chiesto se avesse senso continuare a scegliere quelle immagini di copertina seguendo la regola del due. E naturalmente mi sono chiesto cosa avrebbe significato smettere di seguirla e scegliere invece l’immagine di un paesaggio senza persone. O al contraio l’immagine di un gruppo di persone. Banale associare la prima immagine a un’assenza, a una non-esistenza di me se non in coppia con lei. Ugualmente facile associare la seconda immagine a una specie di dichiarazione di ritorno nel mondo, in mezzo alla gente, dopo aver vissuto una parentesi nel nostro idillio fuori dalla vita normale degli altri e con gli altri. Ancora più diretta e definitiva la scelta di un’immagine in cui non ci fosse più una coppia ma un singolo. Eppure ognuna di queste scelte per un attimo ha avuto senso per me. Per un attimo ognuna di queste scelte mi è sembrato potesse comunicare la verità del mio stato d’animo e mentale in quel periodo della mia vita. Poi quell’attimo è passato e ho deciso di continuare a scegliere immagini di coppie.

Quindi cosa vuol dire dire continuare a utilizzare gli stessi segni in un contesto diverso? Cosa significa la regola del due?”.

Quel maledetto DQ non risponde. E tu ti mordi le labbra perché vuoi conoscere la risposta. Intanto continui a passeggiare e non t’importa delle vetrine buie dei negozi e delle pozzanghere. Dimentichi Istanbul e cerchi la risposta per conto tuo. Certo, sei d’accordo con l’autore senza nome quando dice che le immagini di coppie significano dire che loro due si amano senza che il mondo lo capisca. Certo, sei d’accordo con DQ quando s’immagina come il racconto poteva continuare e dice cosa vogliono dire le immagine del paesaggio vuoto, della gente e di uno da solo. E certo che va bene continuare a scegliere immagini di coppie. Ma la regola del due cosa vuol dire? Ci pensi e sei già tornato a casa e esci sul terrazzo per prendere i tuoi due gatti. Il terrazzo è lucido di pioggia e riflette le luci intorno. I gatti ti si avvicinano e si strusciano sulle tue gambe. Per un attimo la loro immagine si riflette un po’ buia e sfocata sul velo sottilissimo di acqua sul terrazzo bagnato. Ecco, un po’ buia e sfocata, anche nella tua testa si forma l’immagine del significato della regola del due.

La regola del due significa inizialmente la conferma della situazione ideale. Poi passa a significare la nostalgia che segue la perdita di quella situazione. Poi sfuma anche la nostalgia e seguire la regola del due sembra diventare niente altro che un vezzo, anzi un’abitudine in realtà priva di significato. In realtà è cominciata la ricerca di una nuova situazione ideale in cui la perfezione di lui e lei possa elevarsi a una dimensione superiore e allo stesso tempo più concreta. Perché una cosa è chiara, finalmente, ed è tanto più chiara se guardi le immagini di coppie: la coppia non esclude il mondo e la gente. L’immagine ritrae una coppia di soggetti, speciali e unici nel loro essere insieme, ma oltre la coppia c’è tutto il resto. C’è lo sfondo, che è il mondo, con tutti i suoi avvenimenti e tutte le persone che ci sono dentro. Senza il mondo, senza la capacità di starci dentro, senza la consapevolezza della concretezza del mondo e della vita tutto intorno non ci può essere neanche la coppia. L’immagine riflessa dei gatti nella pioggia non è perfetta, e per questo è bellissima. Bisogna compromettersi. L’amore assoluto è illusorio e se si fa affidamento al solo amore assoluto ci si consuma insieme a lui. Bisogna amare e vivere. Continuare a farlo anche quando vivere è spiacevole. Sulla consapevolezza del mondo e della vita poggia la consapevolezza dell’amore. Servono solide basi di concreta consapevolezza prima di sperare di poter amare e stare insieme giorno per giorno e invecchiare insieme a una persona, magari.

Sei già a letto quando ti salta in testa un altro maledetto pensiero. Che c’è una cosa che sfugge al ragionamento, cioè la possibilità dell’amore. Perché non è una cosa che si decide da soli, è evidente. Cosa serve? Servono un po’ di fortuna e un po’ di pazienza? Se è vero che le basi dell’amore stanno nella concretezza del mondo e della vita l’amore stesso non può essere soltanto scintilla e fiamma! Possiamo scegliere di crederci ed essere costanti e lucidi nel mantenere la nostra scelta. Ti sembra di sentirlo, il maledetto DQ, mentre ti parla con le sue metafore romantiche…

Forse è arrivato il momento di estrarre quel piccolo seme di dubbio dal suo rifugio nel buio per masticarlo e sputarlo. Oppure è possibile lasciarlo dov’è. E può accadere che il seme germogli comunque e cresca fino a diventare una piantaccia con le foglie scure e gonfie di veleno. Può al contrario accadere che il seme trascurato marcisca. Come marciscono le occasioni perdute, le felicità non vissute, le fortune non godute, i momenti che d’un tratto da futuro radioso si mutano in rimpianto. Si può scegliere di lasciarlo lì dov’è, e curarlo, amarlo, proteggerlo fino a quando non spunta un germoglio che per quanto piccolo e fragile vale la pena accudire e far crescere affinché diventi giorno dopo giorno virgulto e poi robusto albero dalle magnifiche fronde colme di frutti.”

Fino alla fine non lo saprai se hai fatto la scelta giusta. Te li ricordi gli anni in cui pensavi che il destino di ogni essere umano è quello di essere solo, che essere singolo è lo stato naturale per un individuo, che non c’è nessun altro, e poi hai scoperto che invece una persona con cui vivere ci può essere e addirittura l’hai trovata… beh, nemmeno io vorrei tornare indietro. Spegni la luce per dormire e non hai mica poche risposte. Un attimo prima di addormentarti ti torna in mente una poesiola che s’intitola come questa tua lunga confessione. E voler essere felice ti sembra l’unica cosa buona che c’è da fare.

Eravamo

Ora

Tu sei io sono

Di nuovo

Saremo”

– DQ

I mulini per il sale di Marsala

Il cibo è contaminazione. Oddio, detta così… Voglio dire che è contaminazione nel senso di culture e tradizioni e usanze che si mischiano. Ed è anche contaminazione di immagini, ricordi, idee: l’occasione per saltare da un’immagine all’altra, da un ricordo a uno più vecchio, da un’idea a un’idea diversa. Allora quando un amico mi ha detto di aver visitato i mulini per il sale di Marsala io ho pensato al sale grosso, poi al sale grosso sopra una tagliata insieme con il rosmarino, poi a un ristorante dove andavo con i miei nonni, poi al fatto che ancora ci vado con il mio nonno ma non mangio più la tagliata. E poi ho pensato a quanto segue.

Ho pensato che ogni volta che rivelo a persone che un po’ conosco, sì, ma non conosco proprio benissimo che non mangio carne o pesce lì per lì mi sento coccolato per le attenzioni che ricevo. Perché non appena termino quella breve rivelazione ecco che chiunque l’abbia sentita comincia a preoccuparsi della mia alimentazione. Allora cosa mangi? Neanche il pesce? E le uova? E stai bene? E quali benefici hai tratto da questa cosa?

Però ho imparato che subito dopo il tono comincia a cambiare. Ma sarà un’alimentazione bilanciata? Ma l’uomo è onnivoro, no? Non sono esseri viventi anche i pomodori? Proseguendo con domande di questo tipo e l’intenzione evidente, e inquietante, di farmi cambiare idea. Raramente invece c’è chi mi chiede il perché quell’idea mi sia venuta – la mia potrebbe essere un necessità dovuta a ragioni di salute e non una scelta dettata da filosofia, religione, libero arbitro, voglia di vedere l’effetto che fa, noia – perché la riposta forse presumono di saperla già. E la conversazione si chiude spesso con la spiacevole sensazione che stiano giudicando la mia scelta non una scelta genericamente sbagliata, ma proprio una scelta contro-natura. Un simpatico ragazzo una volta mi ha detto: se abbiamo i canini… e ha voltato i palmi delle mani verso l’alto. Mi è venuto da sorridere pensando alla faccia che avrebbe fatto un leone a sentire quelle parole.

Ma sarò sincero: vorrei davvero poter entrare nelle case di queste persone per ammirarle e invidiarle e imparare da loro per come pesano la pasta, il sale che buttano nell’acqua e il sugo con tutti i suoi ingredienti; per la cura con cui calcolano l’apporto proteico di ogni alimento su base giornaliera e settimanale; per l’attenzione con cui consultano le tabelle nutrizionali e si assicurano così di seguire un regime alimentare adeguato al proprio peso, alla propria età e al proprio stato di salute.

E siccome non posso entrare nelle case mi accontento di ricordare quelle volte in cui qualcuno – sempre un uomo – con cui ho parlato per i dieci minuti precedenti del fatto di non mangiare carne – o meglio: lui ha parlato per i dieci minuti precedenti del fatto che io non mangio carne – proprio quello lì infilza una fettina di salame con lo stecchino, fa per offrirmela, poi dice: ah, no, non puoi, e se la mette in bocca con gran sorriso e gusto e soddisfazione. E allora io penso: ehi, fare felici le persone è facilissimo.

Ma ok, so cosa stai aspettando: la cosa della capra. A me non è mai capitato ma altre persone non carnivore da più tempo di me mi dicono che invece è una domanda tipica. E cioè: cosa fai se ti ritrovi su un’isola deserta con una capra? Dato che la domanda suggerisce un modello di isola tipo Settimana Enigmistica cosa farei è semplice: morirei di sete prima che di fame. Con ogni probabilità la capra mi sopravvivrebbe e sarebbe lei a mangiare me.

Certe lettere che rotolano

Della questione dello schwa ne ha parlato e ne parla bene e tanto Vera Gheno. Inclusività. Pari opportunità. Sensibilità. Politically correct. Lingua che dà forma alla nostra visione del mondo. Eccetera: su queste cose non potrei dire più e meglio di lei; quindi vi invito a cercare i suoi interventi, interessanti a prescindere dalla questione dello schwa – a cominciare da questa intervista, per esempio.

(Penso comunque all’eventualità di insegnare a una classe delle elementari che nella lingua italiana ci sono il genere femminile, il genere maschile e il genere… che si indica con la desinenza ə: non credo che la classe solleverebbe obiezioni o perplessità. E la vedo anche relativamente facile, almeno per nomi o aggettivi; per gli articoli no, per gli articoli è un bordello.

Sarebbe certamente un grosso cambiamento. Ma da qualche parte nel tempo e nello spazio esiste il duale, oltre al singolare e al plurale: in qualche modo lo insegnano; e immagino che ci siano stati un prima e un poi.

Probabilmente intorno all’anno Mille, nel passaggio dal latino all’italiano, avremmo potuto assistere a furibonde discussioni tra chi predicava che era necessario disfarsi del genere neutro e chi invece sosteneva che senza neutro non ci si poteva stare – e poi chi diceva, e mi vedo la faccia, che tutto questo in ogni caso non avrebbe rimandato l’imminente Fine del Mondo.)

L’aspetto su cui voglio invece qui brevemente ragionare è il seguente: lo schwa è uno strumento che ci dà l’opportunità di utilizzare con più precisione la lingua italiana (o le altre, cambiato quello che c’è da cambiare). Provo a immaginare.

Immagino di rivolgermi a una platea di persone, e dico: tutti quelli che hanno una casa di proprietà alzino la mano. Chiunque abbia una casa di proprietà alzerà la mano (solo mani alzate, se di gente in affitto non ce n’è). Poi dico: tutte quelle che hanno una casa di proprietà alzino la mano. Chiunque abbia una casa di proprietà, e sia donna, alzerà la mano (solo mani alzate, se di gente in affitto non ce n’è e mi rivolgo a sole donne). Posso fare questa selezione automatica per soli uomini? No; perché se dico “tutti quelli che” succede come nel primo caso.

Proviamo a introdurre lo schwa. Be’, è facile immaginare come cambino i risultati delle richieste per tutti, tutte, tuttǝ. Allora a posto? Non ancora. Con tutti si alzeranno certe persone, con tutte si alzeranno certe persone, con tuttǝ si alzeranno certe persone, il cui numero potrebbe però non corrispondere alla somma di tutti e tutte. La spiegazione è che in quella platea potrebbe esserci chi non definisce la propria identità né di genere maschile né di genere femminile; ma risponde a tuttǝ, che in questo caso indica la totalità delle identità, e non solo maschile più femminile.

A questo punto sarei però tentato di usare lo schwa per includere tra le opzioni (e poter quindi selettivamente chiamare ad alzare la mano, secondo l’esempio) questo terzo gruppo di persone; ma poi come faccio per rivolgermi ai tre gruppi tutti insieme? Facile: basta usare tutt[non lo so]!

Insomma: questo strano schwa solleva dubbi, perplessità? Certo: non perché sia troppo, ma forse perché troppo poco. Ma per intanto, dai. Probabilmente, quando le aziende capiranno o riterranno che l’attenzione a certi aspetti della comunicazione è profittevole – cioè, usando lo schwa non perdo clienti ai quali non dice niente e ne acquisto altri ai quali invece dice – allora fioriranno dappertutto praterie di schwa; allora troveremo il modo di usarlo in modo efficace e condiviso; allora nessuno lo troverà più né buffo né esagerato. Previsione facile, la mia.

Buone feste e buon lavoro

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A tutti fa piacere passare le domeniche e i giorni di festa coi propri cari. Fa piacere anche a chi di cari non ne ha, povero, stare magari per i fatti suoi. Insomma, le domeniche e i giorni di festa sono sacri! Cioè, erano. Non lo sono più perché è arrivato un Gargamella che ha concesso la possibilità di tenere aperti i negozi anche quando il calendario segna un giorno rosso. Se chi ha liberalizzato le aperture dei negozi è un cattivone, chi dice di tornare indietro ci vuole bene, giusto? La risposta non è così scontata, secondo me. È un tema che può esemplificare quello che chiamiamo populismo – tanto difficile da definire quanto facile da riconoscere, un po’ come la pornografia.

Il tema dell’apertura dei negozi nei giorni festivi è un tema che riguarda tanti – anzi, tutti, come lavoratori e consumatori. Il populista lo affronta di petto scegliendo la strada più facile, in linea con la sua visione dicotomica delle cose, solo bianche o solo nere, la soluzione più superficiale e utile a raccattare immediato consenso. Credo che le cose vadano più o meno così:
– Mannaggia, questa domenica mi tocca lavorare dice al populista l’amico commesso del supermercato.
– Fermo lì, interviene il populista, te la faccio io una legge per farti stare a casa, a te e a tutti i cittadini, non come quei cattivoni che non vogliono farti stare a casa con tua moglie e i tuoi figli, quei corrotti, eccetera.

Il populista ha mica anche un amico infermiere o poliziotto o cuoco? Dove va a mangiare l’amico commesso con la moglie e i figlioletti nelle domeniche finalmente libere e liberate? Ma se fai uno di quei mestieri lo sai che si lavora anche di domenica, dice – e l’ho sentito dire spesso da chi vuole i negozi chiusi nei festivi.

Secondo me è un’obiezione che ha alcuni limiti. Innanzitutto non è carino nei confronti dell’amico commesso, perché suggerisce che chi lavora, ad esempio, in un ristorante ha scelto di farlo, seguendo vocazione e professione, mentre chi lavora nel supermercato, povero anche lui, non ha saputo trovare di meglio. Non può essere soddisfatto, il commesso, del lavoro che fa? E – secondo limite – siamo certi che chi lavora nel ristorante lo sia, soddisfatto? Oppure capita che ci lavori perché riesce a conciliarlo con qualcos’altro, perché è una tipologia di lavoro che più di altre si presta a essere svolto saltuariamente o stagionalmente? Il terzo limite è che la distinzione tra lavori che impegnano da lunedì a venerdì e quelli che impegnano anche la domenica viene sempre meno. Quale lavoratore nel settore del commercio si stupirebbe se gli fosse chiesto di essere presente anche nei giorni festivi? Sono anni che accade e fa parte delle regole del gioco. Regole che consentono ampi margini operativi, peraltro. I macellai del mio paese sono regolarmente e tradizionalmente chiusi di domenica e nei pomeriggi di martedì e giovedì: avranno fatto i loro conti.

Non voglio liquidare la scelta populista di imporre per legge la chiusura dei negozi nei giorni di festa con la facile sebbene ragionevole battuta: e allora i ristoranti? Non penso neanche di tirare in ballo le leggi del Capitalismo che necessariamente scardina riti e tradizioni e legami famigliari, per carità. Ed evitiamo di constatare come le abitudini dei consumatori siamo cambiate, come questa non sia una cosa brutta per forza – e come gli stessi consumatori debbano forse entrare nel dibattito sul tema, portatori di bisogni e diritti anche loro. Amazon e (big) compagnia? Passiamo oltre.

Qualche parolaccia, almeno un paio, bisogna che la diciamo, però: corporativismo fascista. Nelle corporazioni del Ventennio si pretendeva di risolvere le dinamiche economiche tra Lavoro e Capitale per mezzo dello Stato, nel quale tutte le contraddizioni si annullano, a maggiore gloria dello stesso. Al di là del fallimento di questo sistema e della condanna del quadro politico nel quale si inseriva, è innegabile che anche il fascismo riconoscesse la presenza di certe dinamiche economiche. Il populista no.

Il populista valuta e sceglie tenendo come unici parametri il riscontro immediato di consenso e l’immagine di una famiglia delle pubblicità anni ’50. Non esistono per il populista né la legittima aspirazione al profitto da un lato, né le altrettanto legittime conquista e rivendicazione dei diritti dall’altro. Non esiste alcuna dignità del Lavoro, né in quello dell’imprenditore né in quello del dipendente, per il populista. E quindi nessuna preoccupazione sulle conseguenze di tali scelte tranne la valutazione dell’immediata soddisfazione della necessità di dare risposta ai temi che proprio perché quotidiani e comuni richiederebbero ponderazione e raziocinio, piuttosto che istinto e rabbia. Se il commesso fosse amico di un medico e non di un politico, lamentando un dolore alla gamba si sentirebbe rispondere: e tagliamola, sta gamba! Perché il populista è pigro, non ha voglia di pensarci su e dice la cosa più facile e veloce che si può dire.

Non riesco a immedesimarmi nell’imprenditore che tiene aperto il negozio nei giorni di festa. Riesco invece a immedesimarmi molto bene nel dipendente che lavora di domenica – ci riesco perché mi è capitato, semplicemente. Non ero felicissimo di andare, lo ammetto: tutti i miei amici di domenica erano a casa e il sabato si faceva tardi. Se mi avessero detto che la domenica basta, non si lavora più, è proibito, sarei stato contento, sì. Probabilmente più contento ancora sarei stato se mi avessero detto che di domenica si lavora perché i clienti di domenica ci sono, che si fanno i turni, che è riconosciuto un bonus, che si recupera un giorno durante la settimana, eccetera – evitando magari certi toni ricattatori. Più contento, insomma e in generale, se l’intervento dello Stato non fosse per imporre un divieto ma per garantire libertà e dignità e diritti al mio datore di lavoro e a me. Un intervento che garantisca opportunità per tutti, nel rispetto dei ruoli e delle aspettative, con le giuste tutele, monitorando, valutando, correggendo le storture e sanzionando le condizioni di sfruttamento.

Sarebbe la politica, dice un amico mio, no i discorsi da bar. E io sono d’accordo con la prima parte soltanto, perché questa storia dei discorsi da bar rischia spesso di diventare a sua volta un discorso da bar, dipende da chi la tira fuori, quindi meglio non abusarne. L’importante è che quei bar siano aperti nei giorni rossi del calendario. Se credono, ovviamente.

Il sapore di un’albicocca

Ieri sono uscito di casa per andare dalla mia fruttivendola di fiducia a comprare un’albicocca. Durante il tragitto mi sono venute in mente le cose che scrivo qui sotto.

Pare che tutti siano d’accordo che il Vecchio Campo Sportivo (VCS) debba restare un’area verde; non tutti sono d’accordo su cosa debba intendersi per area verde e su come raggiungere l’obiettivo.

Le due idee che si confrontano in questi giorni sono quella inserita nella Variante al Piano Regolatore, presentata dall’Amministrazione Comunale, e quella del Borgo Metauro Park (BMP), presentata dagli Gnano Bulls insieme ad altri cittadini di Fermignano. La Variante prevede la cessione di una parte del VCS al fine di ricavare i fondi necessari alla sistemazione della parte restante; il BMP consiste nella realizzazione di un parco a destinazione sportiva e ricreativa su tutta la superficie del VCS.

Pur ritenendo che la Variante sia stata fatta in buona fede e il BMP un’iniziativa meritevole, a me non piace nessuna delle due ipotesi. Anzi, secondo me entrambe compromettono irreversibilmente le potenzialità dell’area.

La Variante riduce la superficie del VCS per far posto ad attività terziarie e/o servizi.

schedaPRG

Pur ammettendo che i 5000 mc previsti occupino solo una piccola parte dell’area totale, a questa piccola parte vanno aggiunti i mq occupati dai parcheggi necessari per quei 5000 mc costruiti.

Pur ammettendo che siamo disposti a rinunciare a una parte del VCS per trovare i fondi necessari alla sistemazione della parte restante, non abbiamo la certezza che quei fondi verrano davvero utilizzati come promesso – pensiamo a un’emergenza, un tetto della scuola da rifare, ad esempio: chi si opporrebbe all’utilizzo dei fondi destinati precedentemente al VCS? E allora si potrebbe essere tentati di cedere un altro pezzettino, per trovare i fondi per sistemare la parte restante. E così via, senza alcuna garanzia – essendoci un precedente: mesi fa un Consiglio comunale votò che mai si sarebbe costruito nel VCS, mentre la Variante prevede il contrario, adducendo motivazioni di tipo economico.

Oppure no, ammettiamo che i fondi ricavati dalla cessione siano super-vincolati al punto che l’Impresa che edifica i 5000 mc di centro commerciale debba essa stessa sistemare il resto dell’area. In questo caso credo che il rischio sia che l’Impresa, così costretta, proponga e realizzi un progetto superficiale, frettoloso e con l’occhio al risparmio. Non mi dà alcuna garanzia l’eventuale supervisione di un’Amministrazione comunale come quella attuale, visti i pessimi risultati ottenuti in occasione di opere importanti come la (ex) Scalinata di Piazza Don Minzoni, il (cosiddetto) Belvedere sul fiume e il (grosso) edificio che sta sorgendo proprio nell’area adiacente al VCS.

Il progetto del BMP prevede la realizzazione di diversi impianti: campo da calcio, campo da basket, campo da beach volley, piscina estiva, campo da bocce, skate park, anfiteatro per eventi, pista da running (con ponticello), area giochi per bimbi.

BMP

Il campo da calcio aperto e libero per i bambini è già stato realizzato in occasione del Torneo over 35 organizzato dagli Gnano Bulls nel giugno del 2013 e le sue condizioni attuali sono evidenti a chiunque si rechi nel VCS: restano solo le porte senza rete – una porta e mezza, anzi, visto che una è intera, mentre all’altra manca la traversa. Campi da calcio in giro per il territorio comunale ce ne sono, ma il punto non è questo; è, più banalmente, che forse un campo come quello, aperto e libero, per i bambini è troppo grande. I bambini, almeno da quando ero bambino io – cioè da 25/30 anni – a calcio ci giocano liberamente e all’aperto nella parte dei Giardinetti di Piazza Don Minzoni non occupata dalle strutture dei giochi e dalle panchine. Quelle sono probabilmente le dimensioni giuste per un campo per bambini libero e all’aperto. Una collocazione giusta può essere nei giardini di Via Tronto, di fronte all’ingresso dell’asilo nido: si levano le altalene rotte e lo scivolo inutilizzato se non per scriverci cazzo-figa-culo-tette, si piantano due pali con una rete (vanno bene anche quelle verdi delle recinzioni, così durano di più) e il campo è fatto – anzi, i campi sono fatti, perché se perpendicolari alla strada a occhio ce ne scappano due. Sarebbe anche un intervento coerente con un’area dove ci sono un Palazzetto dello Sport, un asilo nido, l’inizio di un (fu) percorso-vita; accanto a una via, Via M. L. King, molto frequentata da chi vuole passeggiare o correre (facendo serenamente a meno di una pista da running dedicata).

Il campo da basket c’è già, a disposizione di tutti in Via Tiziano presso i cosiddetti Polivalenti, e sistemato qualche anno fa dagli stessi fruitori in maniera impeccabile. Di certo sarà sovraffollato durante la bella stagione, ma le mie perplessità sono di altro genere: temo che realizzare un secondo campo da basket a due passi dal centro privi di vitalità un quartiere che molto probabilmente risentirà del trasloco del supermercato Conad. Cosa me ne frega a me che sto in Piazza? Magari niente, per carità, ma nel proporre un progetto per tutta la cittadinanza avrei piacere che si considerassero anche le conseguenze di quel progetto su parte della cittadinanza.

Anche un anfiteatro per eventi c’è già, è la (ex) Scalinata. Vero è che nessuno la usa, né come scalinata né come teatro, però prima di costruire un doppione proverei a utilizzare quello che già c’è, fatto bene o fatto male che sia.

La piscina è un grande progetto. Non ho idea di quanto possa costare costruire e poi mantenere una piscina, né se le piscine dei Comuni intorno al nostro siano così brutte, lontane o sovraffollate da scoraggiarne la frequentazione. Personalmente risolverei la questione con una convenzione tra Comuni e una corriera, ma ammettiamo che davvero ci sia un assoluto bisogno di una piscina a Fermignano e che arrivi un assegno in bianco da un benefattore tanto generoso quanto misterioso e che la piscina si possa fare. Se così fosse, non facciamola solo estiva, facciamola chiusa, così la utilizziamo tutto l’anno. La collocazione giusta per questa grande opera è la zona dove si è già delineato un polo sportivo, cioè a Cavanzino, vicino ai campi da tennis e da calcio. Si proseguirebbe così coerentemente con l’ampliamento di un’area che ha già la sua vocazione sportiva – inserendo qui anche il campo da beach volley. Sul lato destro di Via Costa si possono realizzare i parcheggi che servono tutto l’impianto.

Per le bocce e lo skate park non so, dico la verità, non riesco a immedesimarmi.

Di giochi per i bimbi ce ne sono decine sparsi per il paese, in ogni scacco di erba libera abbastanza grande è stata piantata un’altalena – e lì abbandonata al suo destino.

E allora cosa diavolo ci facciamo in questo stramaledetto campo sportivo? Niente, non ci facciamo niente. Anzi, togliamo anche un po’ di quello che c’è. Togliamo il muro intorno, che è in condizioni fatiscenti e non invita per niente ad entrare. Togliamo la possibilità di parcheggiarci il venerdì quando c’è il mercato. Non togliamo la sporcizia, perché quella quasi non c’è, visto che nessuno ci va nel VCS, nemmeno per sporcarlo apposta.

Immaginiamo che la stradina di breccia che parte dal cancello e va verso destra, creata dagli anni e dalle Feste dell’Unità, dell’Amicizia e della Birra, arrivi fino al confine del VCS e trovi un modo per sbucare verso il supermercato che verrà. Immaginiamo che andando a fare la spesa un bambino dica che vuole giocare sul prato e insieme alla mamma aspetta che il babbo ritorni con le buste piene. Magari la volta dopo il bambino ci viene con un amico e giocano al pallone mentre una ragazza lancia il frisbee al suo cane. Dei tipi più intraprendenti portano due paletti e un nastro e cominciano a fare due scambi con le racchette da spiaggia. Un signore che sta leggendo sente i toc-toc della pallina di gomma e allora alza gli occhi dal libro e li guarda.

Lo ammetto: queste sono tutte cose che farei io, però a voi che leggete ne verranno di certo in mente altre. Il muro che abbiamo abbattuto, ad esempio, non lo buttiamo via, ma lo piazziamo qua e là sull’erba in blocchi e ci facciamo un’arena per giocarci con le pistole che sparano le pastiglie di vernice. Coi mattoni che avanzano ci facciamo delle piazzole per metterci la graticola e fare le grigliate. Possiamo farci un giardino, al VCS, e guardare come cambia colore durante l’anno a seconda delle fioriture. E poi trasformare quel giardino in un labirinto di piante e percorrerlo per scoprire al centro una scultura che cambia ogni stagione messa a disposizione dei cittadini da qualche imprenditore generoso. Quando ci stanchiamo del labirinto, ci piantiamo un albero da frutto per ogni bambino che nasce e quando i frutti saranno maturi facciamo una festa e raccogliamo i frutti e li diamo all’asilo, oppure li vendiamo e col ricavato ci sistemiamo un lampione, ci rifacciamo le strisce pedonali, ci tagliamo l’erba degli spartitraffico.

Oppure arriverà il giorno in cui capiremo che l’idea migliore è quella di un centro commerciale con la piscina dentro (o viceversa, non mettiamo limiti alla fantasia), ma nell’attesa di quel giorno vale la pena riempire quello spazio di tanti significati prima di riempirlo di cose; e godersela, quell’attesa. Un biglietto del Circo Donato Orfei di un paio di anni fa dava appuntamento a grandi e piccini in Piazza Divertimenti: quel nome inventato dà seriamente l’idea di quello che sarebbe bene fare al Vecchio Campo Sportivo.

Concludo. Dunque arrivo dalla fruttivendola e dico: dammi un’albicocca! Lei: non è ancora proprio la stagione, però, ti avverto. E io: dammela lo stesso! Il sapore dell’albicocca non era un granché e ci sono rimasto male. Ma ormai l’avevo mangiata.

***

Per approfondimenti.

Il link alla Variante al PRG (in particolare Norme Tecniche di Attuazione – art. 30 e Tav.2B-3):

http://www.comune.fermignano.pu.it/index.php?id=28344

Il link al Gruppo Facebook del Borgo Metauro Park:

https://www.facebook.com/groups/borgometauropark/

Colletta!

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